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[...]Perché non sono di per se stessi i banchetti, le feste, il godersi fanciulli e donne, i buoni pesci e tutto quanto può offrire una ricca tavola che fanno la dolcezza della vita felice, ma il lucido esame delle cause di ogni scelta o rifiuto, al fine di respingere i falsi condizionamenti che sono per l'animo causa di immensa sofferenza. Di tutto questo, principio e bene supremo è la saggezza, perciò questa è anche più apprezzabile della stessa filosofia, è madre di tutte le altre virtù. Essa ci aiuta a comprendere che non si dà vita felice senza che sia saggia, bella e giusta, né vita saggia, bella e giusta priva di felicità, perché le virtù sono connaturate alla felicità e da questa inseparabili[...] (Epicuro, Lettera a Meneceo)

mercoledì 26 gennaio 2011

MEMENTO Che vento soffia sul Mediterraneo



Mentre i paesi della sponda sud del Mediterraneo si infiammano uno dietro l'altro, tensioni politiche, economiche e sociali destabilizzano anche diversi paesi della sponda nord.

Sponda Sud

La nuova rivoluzione del cous-cous (la prima fu in Algeria nel 1988), come è stata soprannominata dai media la violenta protesta in Tunisia e Algeria contro il carovita (dei generi alimentari in primis), la disoccupazione e la corruzione, in meno di un mese dal suo inizio ha portato alla fine del potere incontrastato con cui da 24 anni Zine El Abidine Ben Ali governava la Tunisia. Qui la protesta, ribattezzata Rivoluzione del Gelsomino, nata dopo che il giovane ambulante laureato Mohamed Bouazizi si è dato fuoco per protesta contro le difficili condizioni sociali del paese (immolazione che sta avendo diverse emulazioni fino in Mauritania), secondo diverse Ong ha provocato finora una settantina di morti, ma è sfociata in qualcosa di ben più grande. Se infatti Tunisia e Algeria condividono alcune condizioni di base che hanno permesso alla rivolta di montare e attecchire profondamente in larghi strati della popolazione (due su tutte: la crisi economica che mina la stabilità sociale, vista la parallela imponente crescita demografica che comporta una popolazione composta per i tre quarti da giovani sotto i 30 anni; un sistema economico-produttivo incapace di evolversi rimanendo legato allo schema neo-coloniale che vuole i paesi maghrebini appetibili solo per l'abbondanza di materie prime e forza lavoro), in Tunisia la rivolta ha assunto toni più violenti e ha portato a esiti diversi perché ha pesato anche l'immagine di un governo autocratico, corrotto e impegnato più che altro a reprimere duramente il dissenso, come ha tentato di fare fino all'ultimo Ben Ali, che poche ore prime di fuggire in Francia annunciava lo stato d'emergenza con pesanti restrizioni della libertà personale, negli assembramenti per strada così come su internet. Il governo transitorio, guidato ora dal primo ministro Mohamed Ghannouchi , ha il compito di riuscire a sedare la rivolta (anche con ingenti risarcimenti ai "martiri" della rivolta e alle zone rurali epicentro della rivolta, come si è appreso oggi) e di portare il paese al più presto a nuove elezioni. In quel frangente sarà più facile capire quanto possano aver contribuito a fomentare la protesta le istanze del fondamentalismo islamico (che potrebbero favorire un effetto domino in altri paesi maghrebini e mediorientali). Nel frattempo occorrerà capire con quale occhio le altri capitali del mondo arabo stanno seguendo questa rivoluzione, che per il momento appare soltanto genuinamente democratica, e che quindi potrebbe non piacere a chi teme un sovvertimento dello status quo che avvicini "troppo" alcuni paesi musulmani a sistemi democratici occidentali. Per esempio dalla Libia il generale Gheddafi in un primo tempo ha dichiarato di sostenere Ben Ali, mentre ora dichiara di appoggiare il popolo, pur temendo un' "ingerenza straniera" dietro la sollevazione.

(Le due facce della Rivoluzione del Gelsomino tunisina: il 28 dicembre Ben Ali ha visitato Mohamed Bouazizi all'ospedale di Ben Arous, dove il 26enne ambulante era ricoverato per gravissime ustioni. Morirà il 4 gennaio. Il 14 gennaio Ben Ali lascerà il paese)

Da oggi l'Egitto è ufficialmente nel caos: si diffonde la protesta, la cui miccia è stata sicuramente innescata dalle vicine rivolte in Tunisia e Algeria, e che viene propagata soprattutto grazie a blog e social network, nonostante Twitter e Facebook (terzo sito più popolare in Egitto) in queste ore siano stati ripetutamente oscurati. Dopo che ieri migliaia di giovani sono scesi in piazza al Cairo, Alessandria, Ismalia e Suez, rispondendo in massa alla chiamata del Movimento 6 aprile, con un bilancio degli scontri tra forze dell'ordine e manifestanti che ora è di 5 morti e parecchi feriti da entrambe le parti, anche oggi ci sono stati molti cortei, e si sono verificate nuove violenze che hanno portato a 500 arresti. Le rivendicazioni di questa ondata di protesta soprattutto giovanile sono per un salario minimo garantito, per la fine della legislazione d'emergenza (che dura da trent'anni, ovvero da quando c'è Mubarak), per la riduzione a massimo due mandati per la carica di Presidente, per una condanna ufficiale della violenta repressione da parte del governo e per le dimissioni dell'attuale ministro dell'interno Habib al-Adly. Ma soprattutto nel mirino della protesta pare esserci in generale il potere e chi lo detiene, soprattutto quel "re dei corrotti" Hosni Mubarak, al potere da tre decenni e che ora starebbe preparando la successione a favore del figlio Jamal, operazione non ben vista neanche negli ambienti vicini a Mubarak, figuriamoci tra la popolazione. "L'Egitto non è una monarchia assoluta ma una repubblica", urlavano per le strade ieri e oggi i giovani, islamici o laici che fossero. Pare che alti dirigenti stiano lasciando il paese, compreso Jamal Mubarak, che potrebbe essere fuggito a Londra. Tutto ciò avvalla la preoccupazione di chi paventa il rischio di un colpo di stato.

In Israele e Palestina in questi giorni a tenere banco sono i c.d. Palestinian Papers diffusi da Al Jazeera e The Guardian, una sorta di Wikileaks locale che sta portando alla luce la realtà dei rapporti di forza tra Israele e l'ANP di Fatah e Abu Mazen: ciò che sta venendo fuori dalla pubblicazione di 1700 documenti riservati stilati tra il 1999 e il 2010 (e consistenti nella stragrande maggioranza nella trascrizione dei colloqui che avvenivano durante gli incontri ufficiali tra le due parti) svela la debolezza dell'Autorità Nazionale Palestinese e l'assoluta indisponibilità degli israeliani a qualsiasi forma di accordo e concessione reciproca nell'ottica del processo di pace, che quindi si rivela per quel che è, ovvero un negoziato-farsa, in cui gli israeliani non paiono proprio credere, visto che sono molto più interessati al mantenimento dello status quo, ora che il muro in Cisgiordania e la complessa rete di check point che soffoca la libertà palestinese hanno quasi azzerato la minaccia terroristica incombente su Israele.
Tra i vari rapporti diplomatici pubblicati, sinora a spiccare su tutti è senz'altro la trascrizione del colloquio del 15 giugno 2008, durante il quale, alla presenza di Condoleeza Rice il negoziatore palestinese Erekat offrì alla controparte israeliana «la più grande Gerusalemme della storia», concedendo allo stato israeliano l’annessione definitiva di tutti gli insediamenti di Gerusalemme Est, tranne quello di Har Homa, in cambio del riconoscimento dello stato palestinese, ricevendo in risposta dal ministro degli Esteri israeliano Tzipi Livni un secco no perché come spiegò " l'offerta non è gradita perché non risponde alle nostre esigenze". E ciò nonostante la comunità internazionale reputi illegale l'occupazione israeliana dei territori di Gerusalemme est risalente al 1967. E' evidente che rivelazioni del genere possano avere un pesante effetto destabilizzante in tutta la Palestina ed anche nelle aree limitrofe, così come si teme che possano fare il gioco di Hamas, sempre più forte in maniera inversamente proporzionale alla crescente debolezza dell'ANP, un apparato burocratico che da a molti da mangiare grazie anche ai cospicui finanziamenti internazionali, ma evidentemente molto poco efficace nel difendere le ragioni del popolo palestinese.

Come se non bastasse l'altroieri la commissione d'inchiesta israeliana che indaga sull'attacco alla Freedom Flottilla battente battiera turca - che lo scorso maggio finì sotto il fuoco israeliano mentre tentava di raggiungere la striscia di Gaza per consegnare aiuti umanitari ai palestinesi - ha assolto i militari israeliani dalla responsabilità dei nove turchi che rimasero uccisi nell'attacco. Il primo ministro turco Erdogan ha vivacemente protestato, mentre si prepara una nuova e più grande missione navale verso Gaza. Insomma le tensioni fra i due ex-amici Turchia e Israele difficilmente si attenueranno, garantendo così un ulteriore elemento di destabilizzazione nel sud del Mediterraneo.

Anche il Libano è in subbuglio: ieri ci sono state violente proteste contro la nomina del nuovo primo ministro, il magnate sunnita delle telecomunicazione Najib Mikati, sostenuto dal partito sciita (e vero e proprio "Stato-nello-Stato") Hezbollah. Nel paese dei cedri, in base alla spartizione dei poteri vigente, il posto di primo ministro spetta ai sunniti: Mikati si è difeso dalle accuse di tradimento giuntegli dai sunniti scesi in strada a protestare argomentando: "La mia candidatura da parte di Hezbollah non significa che sono vincolato dalle loro posizioni politiche a eccezione della protezione della resistenza nazionale". Ma è proprio questa eccezione che preoccupa: per esempio il primo atto del governo guidato da Mikati dovrebbe essere quello di disconoscere il Tribunale speciale dell'Onu per il Libano che tra le altre cose indaga sull'omicidio dell'ex premier Rafiq Hariri nel 2005, che vede implicati alti esponenti di Hezbollah.

Sponda Nord

L'Albania vive una gravissima crisi politica, e gli incidenti dei giorni scorsi, con tre morti per colpi di arma da fuoco e decine di feriti tra i manifestanti che contestavano il governo chiedendo dimissioni e voto anticipato, non sono stati che la goccia che ha fatto traboccare il vaso: infatti è da quando Sali Berisha ha rivinto le elezioni nel giugno 2009 che si registra un vero e proprio stallo politico, con l'opposizione guidata dal socialista Edi Rama, attuale sindaco di Tirana, che ha contestato il risultato accusando pesanti brogli, e di fatto non riconosce il governo, paralizzando così l'attività politica. Ora Rama accusa lo stato di aver ucciso gente innocente, mentre Berisha accusa proprio Rama e l'opposizione di aver organizzato un vero e proprio golpe per spodestarlo e prendere il potere, di cui le violenze durante le manifestazioni di pochi giorni fa non sarebbero state che la "fase uno". In realtà il malcontento degli albanesi scesi in piazza è spiegabile non solo con la delusione per l'operato di Berisha, o con la svalutazione della moneta, che in poco tempo ha perso il 10% di potere d'acquisto, o con il pesante rallentamento che con la crisi ha subito l'economia albanese (dopo dieci anni di crescita al 6%, nel 2009 e nel 2010 è cresciuta solo del 2,2%), o con la conseguente crescita della disoccupazione. C'è chi scommette che più in generale è in atto una presa di coscienza maggiore della coscienza civile del popolo albanese, sempre più consapevole dei propri diritti e più deciso a far valer le proprie ragioni contro un governo percepito come distante e corrotto. Intanto per il 28 gennaio l'opposizione ha indetto una nuova manifestazione.

In Grecia si susseguono attentati incendiari e si vive una recrudescenza di azioni di gruppi anarchici, e a dicembre è finito nella violenza anche il settimo sciopero generale indetto nel 2010, scaturito dopo l'approvazione in parlamento del taglio del 5% degli stipendi del pubblico impiego. Insomma il paese continua ad essere attraversato da forte tensioni che non accennano a sopirsi: le drastiche misure che sta assumendo il governo di George Papandreou sono tanto necessarie quanto distruttive dell'ordine sociale.

(L'ex ministro greco dei Trasporti Hatzidakis aggredito durante lo sciopero generale di dicembre)

La situazione finanziaria del Portogallo non migliora, anzi è notizia di queste ore che secondo alcuni analisti a Lisbona la situazione dei conti pubblici è in peggioramento, specie alla luce dei 3,5 miliardi di obbligazioni in scadenza tra febbraio e marzo e degli 8,5 miliardi di bond che il governo dovra' rimborsare entro aprile.
Invece la Spagna non sembra attualmente a rischio crac, anche se il sistema bancario resta esposto a rischi vista la forte esposizione sul settore immobiliare che resta pesantemente in crisi. Tuttavia, proprio a causa della crisi del settore edilizio, e con essa quella del turismo, la disoccupazione resta molto elevata: secondo gli ultimi dati disponibili nel solo 2010 i senza lavoro spagnoli sono aumentati di quasi 800.000 unità, rendendo plausibile la stima di 4,5 milioni di disoccupati (nientemeno che il 20% della popolazione attiva). Numeri impressionanti che mettono il governo spagnolo di fronte alla necessità di azioni incisive per scongiurare un lungo prolungamento della recessione.

In Italia dopo le violente proteste degli studenti dello scorso dicembre, l'opinione pubblica è tornata ad assopirsi, attorcigliandosi agli scandali del premier Berlusconi come farebbe una sua ospite attorno ad un palo di lap-dance. Ma anche qui la situazione finanziaria dello Stato non è delle più rosee, con un debito pubblico cresciuto di 65 miliardi nel solo 2010 e arrivato a 1.869,924 miliardi di euro, circa 31 mila euro a testa, neonati compresi, con una non-crescita preoccupante (anche nel 2011 il Pil non dovrebbe crescere di più dell'1%) e con i dati della disoccupazione che non mostrano inversioni di tendenza, specie quella giovanile che fa registrare un tasso del 28,9%. Ma per il momento le questioni non sembrano essere all'ordine del giorno del dibattito politico italiano. Potere dei media.

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La destabilizzazione economico-sociale causata dalla crisi finanziaria sta insomma mettendo in luce tutti i problemi irrisolti delle due sponde del Mediterraneo: al sud le questioni problematiche si possono riassumere in regimi poco democratici, in una crescita demografica insostenibile, in modelli di sviluppo obsoleti e incapaci di creare prospettive credibili alle moltitudini giovanili.
Al nord è l'instabilità finanziaria che rischia di esplodere in tutta la sua concreta drammaticità (la Grecia ieri, il Portogallo forse domani) o comunque cova sottotraccia minando la stabilità politica (Albania oggi, Spagna e Italia forse domani). E' difficile dire quanto su questa situazione possa aver inciso il fallimento del partenariato euromediterraneo, nato col processo di Barcellona (inaugurato nel 1995 e che avrebbe dovuto concludersi nel 2010 con una completa integrazione commerciale che avrebbe dovuto portare benefici a tutta l'area, anche in termini socio-culturali). Ciò che è fallito però non è solo l'integrazione commerciale ma anche il più semplice e ovvio obiettivo di uno sviluppo comune tra due aree di prossimità così complementari come sono l'Europa da una parte e il Maghreb e parte del Medio Oriente dall'altra. Tensioni politiche, sociali, finanziarie sono il sintomo più evidente del malessere di un sistema, quello euromediterraneo, mai nato, quando invece - ora con il senno di poi della crisi economica globale è facile dirlo - sarebbe dovuta essere una priorità, quantomeno per l'Unione Europea, dove però se si guarda a sud e a est è più per i singoli interessi nazionali che per l'effettiva creazione di un'area di prosperità economica e stabilità politica (Italia e Francia docent).
Così ora la turbolenza diffusa in buona parte dei paesi che si affacciano sul Mare Nostrum, pur sembrando essere dettata nella maggior parte dei casi da afflati democratici, potrebbe degenerare in una lunga fase di instabilità che potrebbe peggiorare le dinamiche commerciali e di conseguenza le prospettive di crescita economica di tutta l'area; con buona pace di chi fino a oggi ha fatto finta di niente, sia che si trattasse di riconoscere il pericoloso potenziale della crisi economica in atto, sia che si trattasse di rilanciare convintamente il processo di integrazione euromediterranea, sia che si trattasse di chiudere un occhio nel negoziare accordi commerciali o energetici o grosse commesse con governi che non rispettano i basilari diritti umani e civili.


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